domenica 17 novembre 2013

"Un anno di..." - Testamento per rinascere e avviarsi alla versione 2.0

Intro

La notte del 30 ottobre del 2012 mi trovavo sulla panchina fuori dalla mia casa spagnola, a parlare con il mio compañero di sempre, dei nostri progetti e del nostro futuro. I mesi di volontariato erano agli sgoccioli, io ero materialmente (ma non mentalmente) pronta per tornare in Italia. Lui mi chiese se davvero volevo finire gli studi. 
"Sì, ci proverò"
"Ma quanto ti manca?"
"Sei esami e una tesi di circa 100 pagine"
“Quindi un anno” - mi disse.

Un anno. In quel momento mi resi conto del tempo davanti a me, che mi schiacciava e mi impauriva.
Un anno. Dodici mesi prima di potermi dire di nuovo libera e inseguire i miei sogni.
“Ma davvero, così tanto? E’ troppo, vedremo cosa accadrà”.

365 e più giorni dopo, ho dato i 6 esami, la tesi è di 140 pagine e il compañero non c’è più.
Ma io ho imparato che il tempo è relativo, che i mesi a volte scorrono tutti uguali e velocissimi, e che poi capita una settimana che vale mezza vita.
Ho imparato che si possono ritrovare amicizie vecchissime come se fossero cristallizzate nel tempo e che basta un minuto per chiudere per sempre con qualcuno.
Ho imparato anche che io non controllo niente, che tutto capita quando mi deve capitare e che devo anche sapermi abbandonare.

Ho imparato che mi posso perdonare.

365 giorni e più giorni dopo, ho imparato tante di quelle cose…
Ma soprattutto, ho imparato che devo continuare ad imparare.

Il mio anno di ricerca adesso è scritto qui. Nero su bianco. Pubblico perché dev’essere così. Perché solo dall’ultima confessione posso purificarmi davvero. Non cancellare, ma chiudere. Non eliminare, ma sciogliere.

Un anno di.

Il ritorno. La fine di una grande storia d’amore. L’illusione (in)consapevole su una persona lontana. Il vuoto intorno perenne e presente. Le tante serate in casa a studiare, i weekend solitari, le notti agitate – perché ti svegliavi di soprassalto e non sapevi dov’eri.

Il cambio di casa, i viaggi in cerca di qualcosa, l’abbandono dei gatti, dei mobili e delle tue certezze (quanto è facile distruggere e com’è difficile ricostruire).

Un senso di colpa che ti pugnala al cuore.
I sorrisi sempre e comunque, il lavoro – quel lavoro incerto e precario, che chiede molto e dà poco in cambio, che ti costringe a svegliarti anche se per poche ore.

Quei bambini che da anni mi salvano la vita.

La tesi. Le ansie per i primi libri da cercare, gli ultimi esami dati da sola senza le compagne di università. Da sola a districarti tra i documenti della domanda di laurea e svegliarti alle 6 per mettere a posto il capitolo 1,2,3.

Scegliere le tende, il colore della camera e la nuova poltrona. Solo per te.

Scrivere ogni giorno un diario reggiano che vorresti finire, come chi deve scaricare le latrine.

Scrivere agli amici lontani per mantenerli vicini.

Spargere tutto l’amore che sei in grado di dare e non ricevere in cambio nemmeno una persona reale.

Ascoltare una musica di sottofondo che ti accompagna sordamente. Pensare che non ce la farai mai, ma non con la superficialità di chi lo dice e poi non lo fa. Credere davvero che fallirai.

Piangere tanto, forte e a singhiozzi. Ma fare finta di niente per non allarmare la gente.

E le camminate lunghissime in mezzo al verde. I pensieri che si annullano nel niente.

Lo yoga, la piscina, il softball e la bicicletta, per scuotere il corpo, dare una specie di via retta.

L’estate di impegni da esaurimento nervoso, fronteggiare le delusioni di un futuro nascosto, sognare e invaghirsi dei propri sogni.

Il compleanno a sorpresa più strano che ci sia, lo shock di chi ti sveglia e ti fa capire che non vuoi andare via.

Raccogliere di nuovo tutti i pezzetti del puzzle e rimettersi ferocemente al lavoro.

E poi scrivere le conclusioni e sentirsi felici.

Da qualche parte, sentirsi guariti.

Il mio anno di ricerca è una prova che ho superato, il cammino di un alpinista un po’ scemo che alla fine arriva prima di tutti. Volevo svegliarmi un giorno ed avere la soluzione in una mano e la felicità nell’altra. In realtà non ho raggiunto nessuna verità, continuo a non capire ma dev’essere giusto così.

Sono felice quando devo esserlo e triste nei momenti in cui la vita è inevitabilmente una merda. Oscillo e oscillerò come sempre, come facciamo tutti, come è naturale che sia.

Ma quello che cambia, è la serenità di fondo che mi accompagna. Si è installato da qualche parte nel mio essere uno strato molle e piacevole di perfetta serenità. 
Di forza, perché sopravvivrò. 
Di dolcezza, perché amerò.

Di nuovo.

Ho raggiunto il mio obiettivo e l’unica cosa che sono riuscita a fare è stata correre a casa a piangere tra le risate, condividendo con me e solo con me – come è giusto che sia – quel momento di dolorosa soddisfazione.

Ho raggiunto il mio obiettivo e ho dimostrato a me stessa il contrario di qualcosa.

Ho dimostrato che non sono nulla. Che non sono niente. E che proprio questo vuoto, finalmente, mi riempie. 


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